Dipinto ad olio su tela
Cm 50x62, in cornice cm 82x93,5
Firmato in basso a destra. "Con Filippo Palizzi si ha il primo inizio del verismo pittorico. Dopo la scuola di Posillipo l’osservazione del vero diviene oggetto di speculazioni pittoriche. Fin dagli anni ‘50 si interessa alla fotografia che pratica con conoscenze tecniche approfondite. Usava le foto che lui stesso sviluppava, come osservazione e modelli per i suoi dipinti. In tal modo maturò un immediato e diretto naturalismo, riallacciandosi alla scuola animalista fiamminga del XVII secolo, ma cura molto di più i particolari, combinando la dignità neoclassica con la pittura di genere dei costumi popolari. La sua andata in Europa e a Parigi (1955) gli permette di perfezionare l’indagine luministica. Al suo ritorno soggiorna a Firenze. Qui vi conosce Giovanni Fattori e i macchiaioli. Afferma che quello che bisogna cercare nella pittura moderna sono le finezze e la totalità, con questi concetti Palizzi definisce la sua poetica che si basa su una sua personale concezione della “macchia” intendendo che la “totalità” doveva essere l’espressione del tutto, dell’insieme della macchia la quale doveva essere completata dalle finezze, ovvero dalla resa delle sottigliezze percettive. I paesaggi chiaroscurali dovevano sottoporsi a un'attenzione minuziosa, di carattere micrografico agli effetti di luce e dovevano essere realizzati in punta di pennello per esprimere infine la totalità dell’opera. Il dipinto in questione è un tipico esempio di tale concezione pittorica. Prodotto finale di quello che lui stesso definiva un naturalismo cosmico." STUDIO ASOR